Per il libro "La banalità del male", Hannah Arendt prese spunto dalla vicenda di Adolf Eichmann, il curatore della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Adolf operò con precisione maniacale, da impiegato modello, per questo la Arendt, pur stimandolo colpevole,tacciò di banalità, il male conseguente il suo lavoro. Nel medesimo periodo, anni '936-'945, più di un soggetto si era applicato a salvare, dal tritacarne dei campi di sterminio, il maggior numero possibile di persone destinate a finirci.
Definire: "banalità del bene", questo operato salvifico, parrebbe assurdo, invece, proprio banalità, è il termine appropriato nelle due accezzioni: ovvio e normale. Perché è normale e ovvio seguire un comportamento di questo genere, mentre la cattiveria, in particolare la gratuita, la più frequente, è perversione. Per questo, forse, gli atti di bontà fanno meno notizia della cattiveria. Ma non sempre. Ad esempio, la vicenda di "Medici senza frontiere" ha la forza di un romanzo epico. A domani, quindi.
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