martedì 30 agosto 2016

Amiche e amici Facebook( con particolare attenzione a chi è appassionato di montagna)

Non è biografia di me alpinista né testamento, ma un po' di tutti e due.
L'amore, perché era vero amore e lo è ancora, per le montagne, era sbocciato lo stesso anno del fine guerra, il 1945, un giorno di agosto. Delle Alpi conoscevo poco, quel che vedevo da casa mia a Torino, l'occasione di andarci a contatto, era arrivata grazie a un prete della mia parrocchia: con il pellegrinaggio al Rocciamelone, in ringraziamento alla Madonna, là situata in vetta, per la pace ritrovata. In due giorni, mi innamorai. Ero salito fino in punta vestito da cittadino, con scarpe da città avevo salito il piccolo ghiacciaio e il sentiero che, da Maciaulsia, raggiunge la vetta. Di ritorno a casa, vestito e scarpe rovinate, avevo subito il rimprovero dei miei e il dileggio dei fratelli. Poco m'era importato, avevo conosciuto il mio amore. L'anno successivo, in campeggio con altri ragazzi a Saint Jaque, in val D'Ayas, il primo assaggio su un 4000, con il coetaneo Renzo e suo padre. Il Castore in traversata dal Quintino Sella al Mezzalama, per replicare qualche giorno dopo sul Polluce. Non ero più vestito da città, ma poco meglio. Piccozza alta 1,30, scarponi chiodati e ramponi militari acquistati al Balun, il mercato delle pulci di Torino. Dal '47 al '60, tutta un'altra storia vissuta quasi in totale da solitario. Di quel periodo, non mi va di dire dove ero salito, potrebbe apparire vanto e non aggiungerebbe nulla alla mia personale passione. Descrivo invece, la condizione in cui si andava in montagna allora o, meglio, in quale condizione ero obbligato andare io. Da squattrinato. I rifugi custoditi, troppo cari per me, rappresentarono si e no il 10% delle notti passate in attesa dell'alba, le restanti ospite o di un alpeggio alto, oppure nei bivacchi. Non le casette graziose de l'odierno, bensì quei loculi di lamiera zincata a due o quattro posti, per fortuna poco frequentati. Ai piedi, le prime Vibram, ben dopo i '50, idem per una piccozza Grivel, di seconda mano e, in pari tempo, di pari marca i ramponi. Chiodi, di varia misura, mai più di 7-8. Altrettanto di moschettoni. Qualche cuneo di legno, un paio di scalette a otto pioli, acquistate queste con la vendita di una sciabola(cimelio di famiglia abbandonata in cantina)e una tragica corda in canapa di 30 metri(Qualche volta una di 40 in prestito)più un martello e due chiodi da ghiaccio. Per finire, a mo' di canadese, per bivaccare in parete, un telo tenda militare. Non ho descritto il mio povero andare in montagna, né per lamentare la scarsità dei miei attrezzi e nemmeno in invidia delle sontuose attrezzature odierne, ogni epoca possiede le proprie, l'ho fatto per far capire quale amore mi possedeva. Alla nascita di mia figlia, avevo dovuto scegliere fra due amori, ed avevo scelto Paola. Correvo troppi rischi, sebbene, con molta fortuna, me la fossi sempre sgamata. Così, dal '61 ai '90, zero montagne. Al ritorno con mia figlia, forse ne '96, non ero più lo stesso, temevo per lei e il timore mi bloccava. La montagna era sempre amore, ma non più fisico, di contatto diretto. Adesso, da cinque anni, sono le fotografie a saziare l'amore, insieme alle descrizioni di Caroline Schmitt, Marta Bolis, Gabriela Aleandros, Marco Berti, Alessandro Filippini, Davide Bubani, Guido Bonvicini e lo scrittore e poeta Stefano Camors Guarda, senza dimenticare l'appassionato Pietro Rigamonti e altri amici con la montagna nel cuore.
Un giorno, forse nemmeno lontano, ritornerò ad abbracciare le montagne, meglio mi farò abbracciare.             

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